Buon Natale da me e dalla mia India.

Quando arriviamo a Mumbai è già notte.

Non so se abbia fatto ritardo l’aereo più di quanto abbiano detto o se non abbiamo capito assolutamente niente del fuso orario locale, ma fuori è notte ed è pieno di gente.

Mentre già sull’aereo avevamo avuto modo di assaporare il sorriso dell’India con un uomo dolcissimo che vedendoci in panne con la guida in mano ci aveva allungato un foglietto con su scritto “Do you need any help?”  e aveva poi passato il resto del volo a spiegarci dove e come andare, secondo lui, in giro per l’India, l’impatto con Mumbai era stato del tutto diverso.

Mumbai non puzza come Bangkok per fortuna, ma il rapporto spazio/gente è allucinante. Sembra di essere a una finale di coppa di campionato giocata in casa. Stentiamo a trovare il taxi che ci è stato assegnato, ma alla fine ci riusciamo ed arriviamo al luogo di appuntamento con nostro surfer, couch surfer, che ci ospiterà per tutta la nostra permanenza nella Maximum City.

Ma Abhijeet è in ritardo, inizia a piovere come Dio comanda, non abbiamo dove ripararci e iniziamo a credere che il couch surfing non sia poi stata una così bella idea, cazzo.
E se fosse uno spacciatore? Un poco di buono, come avrebbe detto mia nonna?
Abhijeet ci viene a prendere una con una macchinona che te la raccomando e ci spiega che hanno lavorato fino a quel momento e si scusa molto per il ritardo.

Quando arriviamo a casa abbiamo subito lo scontro con la realtà.

Abhijeet è benestante, ma nonostante tutto non ha nulla. Casa sua è vuota.
Un salone con dei cuscini per terra a mo’ di divano (che sarà il nostro letto). Una libreria vuota con un televisore al centro e un lettore dvd ancora mezzo imballato per non fargli prendere troppa polvere.

FACCIA DA JETLAG!!!

Un piccolo corridoio, un piccola cucina con una lavello, una specie di lavatrice, un frigorifero vuoto, due stanze da bagno, una per il gabinetto e l’altra per la doccia, e la sua camera: armadio, letto, tavolinetto e sedia.

Fine della storia.
E’ tutto.

Abhijeet è molto timido all’inizio al punto da non sembrare molto “friendly” se non per le occhiate che mi lancia ogni tanto, il mio essere occidentale con le braccia perennemente di fuori e gli short mentre dormo deve averlo colpito in qualche modo.

I nostri giorni a Mumbai passano velocemente, anche perché non è che ci sia molto da vedere.

Isola degli Elefanti a parte

Mombay skyline seen from Elephant Island - India - PH SR © 2021 Sylvie Renault

E poi il clima è pesante, il monsone non perdona e ci mettiamo un po’ ad abituarci, cosi’ i primi giorni passano in gloria con una visita parziale di una città che più di tanto non ci aveva esaltato, se non per il cinema e le persone che l’abitavano.

Abbiamo deciso di vedere il sud dell’India, saltando la parte più turistica, Goa, ma capire come arrivarci non è semplice.

Per muoverti in India ti chiedono il passaporto anche per comprare un biglietto del bus, indirizzo di dove stavi e di dove andrai.

Ma noi è grasso che cola che ci ricordiamo come ci chiamiamo, così ogni volta guardiamo un posto a caso sulla guida e inseriamo un indirizzo, tanto non lo controllerà mai nessuno.. scritto su quel pezzo di carta poi! 🙂

Decidiamo di prendere un treno, 36 ore, fino in Kerala, Alappuzha o Allepy che dir si voglia, qui tutto ha un doppio nome, quello britannico e quello indiano, che però è postumo e non tutti gli indiani sono d’accordo nel cambiare il nome a qualcosa che da sempre si chiama in un certo modo.

Sleeper Class, 8 euro per un viaggio infinito. Ci sembra conveniente e poi.. vogliamo vivere accanto alle persone comuni questo viaggio, vogliamo vivere la gente, la popolazione, non abbiamo voglia di fare i turisti.

Il treno non parte da Churchgate Station come tutti gli altri, ma da Lokmaya Tilak e in realtà la cosa ci resta anche più comoda perché è più vicina a casa di Abhijeet.

Capire come muoversi non è esattamente una cosa facile in India e quindi in realtà non siamo nemmeno sicuri che il nostro treno si fermi dove crediamo, ma ci speriamo molto.

La gente non ci guarda strano, ma è di sicuro incuriosita.

Da qui in poi inizia il nostro viaggio

Westerns Alone

Almeno abbiamo scelto due cuccette buone, vicino la finestra, una sopra l’altra e sul corridoio, siamo liberi di muoverci come preferiamo.

Durante il viaggio i venditori di cibo, Chai (tè indiano) e Coffè non danno tregua.

Non si riesce a chiudere occhio, perché ogni due secondi arriva qualcuno che strilla qualcosa.

Poi ad ogni stazione sale il mendicante storpiato di turno e la cosa non è più semplice.

Dopo gli storpi delle mine della Cambogia credevo di aver visto tutto, ma niente è in confronto con i deturpati dal racket dell’India.

Decidiamo che la cosa migliore sia regolarsi in base al comportamento degli altri.

E così facciamo.

Allontaniamo quando gli altri allontano, facciamo elemosina quando gli altri elargiscono.

Ma ripeto, non è facile.
Non è affatto facile.

Si trascinano, camminano sulle anche, hanno buchi da acido nel viso da cui si vedono i denti, sono ciechi.

Sono poveri.
Dannatamente poveri.
Più poveri dei poveri con cui stavamo condividendo la cuccetta.

Ma a guardare il paesaggio che scorre, il tempo passa in fretta e il nostro è un viaggio on the road.
E nelle cuffiette ho la musica Pop Indiana che mi ha dato Abhijeet e mi sento ancora più dentro tutto questo

Presto viene sera.

La temperatura si fa più mite, la gente inizia a sonnecchiare… e le blatte ad uscire.

Ogni fermata, ogni rallentamento del treno in cui le vibrazioni diminuiscono, le blatte prendono il loro corso.

All’inizio sono prevalentemente interessate solo a quello che trovano per terra.

C’è una cosa che bisogna dire che degli indiani non mi è piaciuta.

Non hanno un buon rapporto con i rifiuti.

Mancanza di educazione, cultura o igiene, non lo so, ma qualsiasi cosa abbiano in mano, la buttano per terra lì dove si trovano.

Così il treno è pieno di contenitori di cibo o bicchieri di dolcissimo Chai che ad ogni fermata si riempiono di blatte neanche fossimo in un film di  Dario Argento.

Nonostante tutto la cosa mi rallegrava.

Pensavo “Finche’ avranno che cercare per terra, non verranno qui su da noi”, ma l’idillio è durato poco.

Appena passato il caldo afoso, hanno cominciato ad uscire e a camminare dovunque.

Ogni blatta che si avvicinava a me era un urlo, una risata della signora di fronte e un sorriso del bambino che ingenuamente ci giocava di lato al finestrino che gli stava accanto.

Credetemi, non ne ho mai più viste di così grandi!!!
Sembrava di essere sul set di MIB.

Scoperto che l’Amuchina spray non gli sconquinferava poi tanto, avevo fatto una barriera intorno a me.

Avevamo anche l’insetticida, ma le motivazioni che ci hanno fermato sono state diverse.

      1. Gli Hindu credono nella reincarnazione, non è esattamente amichevole fare una strage di cari davanti ai loro occhi;

         

      2. Se avessimo dato luogo alla gasazione, avremmo gasato anche i nostri coinquilini di viaggio che non avrebbero di certo gradito cotal puzza ingiustificata dal loro punto di vista;



      3. E se l’insetticida avesse dato luogo a un fuggi fuggi generale svegliando i nidi di blatte più reconditi e nascosti???

No, no, la cosa migliore era spruzzare sulle pareti intorno a noi un po’ di Amuchina ogni circa mezz’ora, alla fine è un acido! Le blatte, quando si trovavano in direzione,  cambiavano strada e questo ci bastava.

Ma con i ratti? Come fare con quelli?

All’inizio ho sperato solo che fosse una blatta troppo grande e veloce quella che avevo intravisto con la coda dell’occhio e Giò,  che non aveva detto niente per non allarmarmi, ma aveva visto altrettanto, aveva sperato la stessa cosa.

Ma c’era poco da fare.

Quelli erano ratti e pure grossi.

E non c’è Amuchina che tenga con loro.

Capimmo che avremmo dormito poco quella notte.

Probabilmente la causa erano le latrine, come quelle che avevamo noi una volta nei regionali, a cielo aperto o meglio a buco aperto col terreno. O forse la causa erano semplicemente le scarse condizioni igieniche del vagone dopo più di 20 ore di viaggio.
Non lo so, ma la vita di notte invece di essersi acquietata sembra moltiplicarsi.

Peccato, le cuccette sembravano proprio comode!!!

Ma nonostante le paranoie, le paure, le crisi isteriche e tutto quello che potete immaginare, il sonno ha sempre la meglio.

E non so se qualche blatta o topo abbia camminato sulla mia faccia o sul mio corpo, so solo che sono crollata.

Avvolta nel sacco a pelo, con la testa nel cappuccio della felpa, gli occhiali da sole e la bocca coperta dalla bandana, ho dormito.

Svegliandomi in ogni stazione, perché sapevo che le blatte si davano alla pazza gioia proprio in quel momento, ma ho dormito.

Arriviamo nel Kerala che è ormai pomeriggio iniziato e Allepy non ci sembra gran che se non per i canali che la attraversano.

Arriviamo con facilità alla Clinica Ayurvedica di Joy Jacob, altro  couch surfer, ma lui non c’è.

Avevo già capito che la sua partecipazione alla cosa lasciava il tempo che trovava nel far pubblicità alla sua attività, ma alla fine non ci dispiace poi tanto. Cercavamo una persona fidata con cui fare una crociera nelle Backwaters e lui sembra ok per questo.

Ci ospita la prima notte gratuitamente nella sua clinica e ci dà libero accesso ad internet, ceniamo in un pessimo ristorante tanto elogiato nella lonely planet e la giornata finisce, siamo distrutti.

La mattina ci svegliamo presto.
Ha piovuto.
E le nostre scarpe, che erano restate fuori dalla porta per regola dell’appartamento, erano fradice.

Maledetto monsone.

Joy arriva finalmente, si presenta, ci dice che la nostra barca è pronta, ma purtroppo a causa del periodo di festività indiana che abbiamo scelto, non è possibile viaggiare da soli, dobbiamo dividere una barca da 4 con un’altra coppia di indiani.

La cosa non ci dispiace affatto, anzi, accettiamo entusiasti, saliamo sulle moto di Jacob e ci avviamo alla barca.

TLe backwaters si rivelano

Un vero Paradiso terreste

Nessun racconto può restituire l’emozione del fluire mollemente su quelle acque a bordo di una ex chiatta per il trasporto del riso.

Lo chef di bordo è da leccarsi i baffi e ogni volta che gli facciamo i complimenti arrossisce e si prodiga di inchini, ma siamo noi che vorremmo inchinarci a lui.

La coppia che divide con noi la barca è simpatica e poi in India tutti parlano inglese!

Così mi lancio in mille conversazioni e il tempo passa velocemente.. purtroppo stavolta!

Chiacchierando i ragazzi ci parlano di un paio di posti, Madurai, tempio di maggior afflusso di pellegrinaggio di tutta l’India che già avevamo pensato di andare a vedere, e Rameswaram.

Ma cosa ci vanno a fare a Ramesawaram? Non c’è niente oltre il tempio, è solo un luogo di culto quello!!” commentava lei “Si, ma se vogliono vedere posti non turistici, non possono non andare a Rameswaram!!!

E il ragazzo aveva ragione

Finita la breve crociera ci rimettiamo in viaggio e da Allepy saliamo sull’autobus per Trivandrum.

GLI autobus.

Sono infatti molteplici i cambi che siamo costretti a fare prima di arrivare in questa ulteriore polverosa e chiassosa città dell’India.

Ma il panorama è fantastico e poi fa un certo effetto vedere tutte queste bandiere con falce e martello.

Il Kerala fu il primo stato al mondo a eleggere liberamente un governo comunista.

Lo leggo sulla guida e quasi non ci credo.

“Mentre questa ideologia non ha avuto molta fortuna nella maggior parte dei paesi nella quale è stata applicata in modo pratico, la particolare miscela di principi democratico-socialisti del Kerala ha avuto un notevole successo. L’economista  Amartyea Sen, insignito del premio Nobel, ha definito il Kerala ‘Lo stato Indiano maggiormente avanzato a livello sociale’. […] Il tasso di alfabetizzazione (91%) è il più alto tra le nazioni in via di sviluppo. […] Il tasso di mortalità infantile nello stato è un quinto della media nazionale, mentre l’aspettativa di vita si attesta intorno ai 73 anni, 10 anni in più del resto del paese”.

E non posso che dare ragione alla guida questa volta.
Il Kerala è proprio uno stato a parte.
Si respira un’aria migliore.
Qui la povertà non è più disperazione assoluta.

A Trivandrum di lunedì è tutto chiuso, così decidiamo di non fermarci in città, dove forse oltre alcuni musei e punti di attrattiva ci sarebbe stato poco da vedere, ma di andare direttamente a Kovalam, luogo di mare e relax.

 

A Kovalam incontriamo di nuovo qualche altro occidentale, ma possiamo comunque contarci sulla punta delle dita di una mano.

È un posto di vacanza per Indiani e di nuovo la cosa ci piace!
Se non per il fatto che a Kovalam il bagno si fa vestiti.

Specialmente le donne!

Le altre due uniche ragazze occidentali erano in un mezzo bichini, ma io non ci riesco.

Gli occhi degli uomini, non appena inizio ad arrotolare i pantaloni fin sopra al ginocchio per tentare di non bagnarli, diventano talmente pesanti che perdo il senso della ragione e litigo con il mio compagno di viaggio.

Eravamo stanchi e per me quella era davvero una situazione difficile da sostenere.

Speravo finalmente di potermi rilassare un po’… e invece niente!

Dopo una sonora scazzata durata tutto il pomeriggio, io e Giò facciamo pace e decidiamo di cenare in uno dei ristorantini che servono direttamente sulla spiaggia.

Il posto è fantastico, il cibo anche.

Non tutti i locali hanno la licenza per gli alcolici, così quando ordino una King Fisher, la birra locale buonisssSSSsssima, il cameriere mi dice prima che deve andare un attimo a comprarla, e quando poi me la porta, mi chiede di non tenere la bottiglia sopra il tavolo, ma sulla sabbia.

Io che odio il pesce lo trovo divino e finalmente capisco perché mio padre adorava così tanto mangiarlo.
Perché ha passato la metà della sua vita su queste spiagge a farselo cucinare.
E nuovamente ritrovo in una terra che non conosco, un pezzo di un uomo che non ho mai capito fino in fondo.
Mi commuove l’idea che dieci anni prima abbia potuto guardare lo stesso tramonto, cenare nello stesso ristorante e tenere tra le gambe la stessa birra.

E per la prima volta come non mai mi sento veramente

Figlia di mio padre

Ma il tempo a Kovalam scorre ancora più veloce ed è già tempo di ripartire.

Dopo una mattinata di shopping selvaggio, perché i prezzi dell’argento e la qualità degli abiti sono in assoluto i migliori che finora abbiamo incontrato, dobbiamo ripartire.

Fare shopping in India è un po’ come sentirsi Julia Roberts in Pretty Woman.
Tutti gli abitanti del villaggio, non appena ci vedono con più di una busta in mano, capiscono che abbiamo deciso di spendere e ci chiedono di comprare da loro.

Please, give me a chance to make a business today”.

Ma accontentarli tutti è impossibile, anche perché per quanto maggiori delle loro, le nostre risorse sono alquanto limitate.
Come in ogni paese dell’Asia che si rispetti, la contrattazione poi è d’obbligo.
Questo perché con il turista il mercante parte con un prezzo che se va bene…è quadruplicato.

Mi innamoro di un copriletto matrimoniale ricamato a mano.
Pieno di elefanti, colori e paillettes!
Io adoro gli elefanti!
Ma quando entro per comprarlo ora in un negozio, ora in un altro, i commercianti mi urtano.
Sono arroganti.
Non mi piace il modo in cui tentano di vendermi/fregarmi e decido ogni volta di non acquistare il mio amato copriletto.

Fino a che mi viene in contro un pescatore.

Alto, vestito di bianco, barba lunga, turbante, pantaloni lunghi.
Sorriso dolcissimo nascosto tra le rughe del viso mangiato dal sole.

Vecchio.
Troppo vecchio per andare ancora in mare.

Forse aveva capito o era stato solo fortunato, non lo so.
Ma aveva con sé una copriletto, quello che mi piaceva.

Si avvicina, mi avvicino.
Gli chiedo quanto voglia, mi dice 4000 Rupie.

Gli rispondo secca che non gliene avrei date più di 1000, le stesse che avevo offerto ai negozianti precedentemente.
Il pescatore allunga le sue braccia con la coperta in mano e mi regala il suo sorriso più grande.
Era chiaro che la stavo pagando molto più del doppio, ma se per me erano solo 15  euro per un pezzo di cotone…. per lui erano diverse settimane di sopravvivenza.

Quando lasciamo Kovalam sentiamo che ci mancherà, ma il tempo stringe e vogliamo vedere ancora molto.

Da Trivandrum prendiamo un autobus notturno per Madurai, di treni ne abbiamo avuto abbastanza e gli autobus, per quanto più scomodi, si rivelano nettamente più puliti.

Non abbiamo ancora deciso cosa fare, ci siamo detti che una volta arrivati a Madurai, avremmo potuto scegliere, in base agli autobus disponibili, se fermarci o se proseguire direttamente per altre mete.

Arriviamo a Madurai nel cuore della notte e l’autobus per Rameswaram, la meta di pellegrinaggio, partiva dopo neanche mezzora.

Decidiamo di prenderlo.

Nonostante l’orario, l’autobus è pieno di gente e a bordo c’e’ un televisore che passa solo film di Kollywood.
Kollywood (al contrario di Bollywood che è del centro nord) è l’industria del cinema del sud dell’India e i suoi film sono caratterizzati dai personaggi principali maschili tutti bassi, tarchiati, e con i baffi importanti.

A differenza di Bollywood, i film di Kollywood si rivelano strazianti, pallosissimi e dalle musiche insopportabili.
Ed è così che la scomoda notte verso Rameswaram si trasforma in una delle più lunghe di tutto il nostro viaggio.

Ma mai avremmo potuto immaginare che tanto potesse valere

La pena di quello strazio

Rameswaram non è altro che un piccolissimo paese alla punta estrema dell’India.
Un istmo di terra minuscolo di fronte allo Sri Lanka, una strada principale asfaltata fino a un certo punto, tanti viottoli sabbiosi ai lati, mare, sole, sorrisi, vacche e capre che vivono libere per la città brucando per terra il niente!

Rameswaram si sta ancora rimettendo in piedi dallo Tsunami del 2001 e nonostante sia una delle città più lontane dal fulcro colpite, i segni della devastazione sono violenti e talmente tanti che fanno male.

Ma gli abitanti, gli abitanti sono stupendi!

Siamo gli unici due occidentali che probabilmente abbiano mai visto dopo gli aiuti umanitari e i bambini più piccoli, che non superano i due o tre  anni di vita, sembrano davvero non aver mai visto prima una carne così bianca come la nostra.

La loro è nera, neanche fossero nati in africa e noi siamo davvero ridicoli al confronto.

Questi  bimbi ci guardano con aria sospetta, come di chi si chiede quale malattia possa aver mai sbiancato tanto un’essere umano!?!    🙂

A Rameswaram non c’è davvero niente se non un tempio decrepito mangiato dalla violenza del mare e tanti ristoranti, nessuno con menu in inglese.

Non è proprio un posto per turisti.
E non c’è cosa che possa renderci più felici!!!

Per strada ci sorridono e ci fermano come fossimo delle star.

Ci chiedono da dove veniamo e molti non sanno neanche cosa sia l’Italia.
Ma tutti ci danno il benvenuto e ci regalano il loro sorriso più grande.

Quello della vita.

Le condizioni igieniche dei ristoranti non ci sembrano delle migliori, ma decidiamo che se siamo sopravvissuti al treno, possiamo superare qualsiasi prova ormai, e ci fermiamo al primo che dall’odore ci ispira.

L’avventore tanto per cambiare è meravigliosamente affabile e ci accoglie come gli ospiti del giorno, ci serve al tavolo anche se il servizio è self service e ci offre due vassoi di riso su foglia di palma e salse varie a base di ceci e… poi non saprei.
Ma che buone!!!

Unico particolare, le posate!

In India le posate non si usano e noi finalmente eravamo in un luogo completamente tourist free!
E quindi posate free! 🙂

 

Io mi guardo intorno, rinfresco i ricordi dei racconti di mio padre, infilo tre dita nel riso e comincio a mangiare.

Ragazzi che gusto!!!
Mangiare con le mani è un altro pianeta!

L’avventore però nota che il mio compagno di viaggio è alquanto in difficoltà, così.. tanto per non mancare alla sua disponibilità, decide di inventare con una foglia di palma, un cucchiaio, che porge a Giò.. che finalmente comincia a mangiare più sereno.

Quanto abbiamo speso?
Cinquanta centesimi di euro, in due.
Compresi di due fanta e due pepsi.

Il Tamilnadu oltre ad essere meravigliosamente amichevole è anche micidialmente economico.

Dopo il pranzo, prendiamo un risciò per andare a Dhanushkodi, la spiaggia che divide l’India dallo Sri Lanka.

Decidiamo che vogliamo vedere le rive dell’altro stato e ci incamminiamo in quella che si rivelerà la più stancante ed emozionante delle nostre avventure.

Dhanushkodi è una lingua di spiaggia in mezzo all’oceano indiano e il golfo di Mannar, ventosa e infinita.

Dopo pochi chilometri a piedi dalla fermata dell’autobus dove ci aveva lasciato il risciò, siamo in mezzo al nulla.

Il nulla.
Mare a destra e a sinistra e sabbia.
Solo io e Giò.
Non soffermatevi troppo a pensarci, potrebbe venirvi un attacco di panico!

Ma alla fine non ce l’abbiamo neanche fatta a vedere lo Sri Lanka. Il sole, il vento, la tempesta di sabbia, ci ha sfiancato dopo soli 5 km quando già il pensiero di tornare indietro era qualcosa di devastante.
Abbiamo incontrato una cagna incinta, una chiesa abbandonata, un pesce palla morto dalla paura in riva al mare, e ho raccolto le più belle conchiglie che abbia mai raccolto sulla riva di una spiaggia in vita mia.

 

 

Ma nonostante questa paradisiaca sensazione di vivere ai confini del mondo, siamo dovuti tornare indietro.
Alla fermata del bus i bambini ci chiedono penne e matite, ma noi siamo stati così stupidi che non ci siamo portati niente.

E poi siamo cotti.

Cotti di stanchezza e non vediamo l’ora di tornare in albergo, il più fico di tutto il paese.. non che l’unico!
Quando arriviamo nella hall il sorriso degli albergatori evince il fatto che finalmente abbiamo preso un pò di colore!

Ci siamo ustionati! 🙂

Ma è stata la più bella giornata della nostra vita.
Peccato dover ripartire subito.
Madurai ci aspetta, ancora due giorni e poi si torna in Italia.
Così di prima mattina riprendiamo lo stesso bus e torniamo a Madurai.

Seguiamo le indicazioni della guida che si rivelano sbagliate e ci ritroviamo in un albergo a 5 stelle deluxe, ma siamo troppo stanchi per cercare qualcos’altro, e  sebbene l’idea di risparmiare ancora un po’  non ci dispiaccia, ci ricordiamo sempre che in euro, quel mega hotel alla fine non è che costi poi molto, e decidiamo di fermarci.

Madurai è una città tempio.
Non c’è altro.
Ma varcate le soglie di quel luogo sacro, l’aria che si respira… è tutt’altra cosa!

Purtroppo noi non siamo Hindu e non abbiamo accesso a tutte le aree del tempio, ma quello che c’è intorno basta a farci entrare in una dimensione spirituale che difficilmente avevamo toccato prima, se non quando c’eravamo ritrovati da soli con noi stessi su quella spiaggia infinita.

Siamo a piedi nudi, come la regola esige e la pietra del tempio è calda.
È piacevole.
E gli altoparlanti ripetono un mantra che mi riempie di pace.

È una sensazione strana.

Noi occidentali non siamo più abituati a dimenticarci delle scarpe, ad assaporare il contatto con il terreno, a farci elevare dal piacere che questo certe volte emana.

Ma è bastato poco.

Dopo neanche un’ora in giro per il tempio, ci siamo ritrovati scalzi in mezzo a un mercato che non c’entrava niente con tutto il resto!
C’eravamo persi, sbagliati!!!
Ma tanto oramai.. era così bello camminare a piedi nudi… perché smettere????

Nel mercato vengo marcata stretta da una ragazza in cinta che a tutti i costi vuole vendermi due cavigliere di silverplate, e per convincermi tira fuori qualche frase italiana mista a una dozzina di sorrisi e mi mette in fronte un punto rosso.

Ora si che mi sento proprio parte di questo paese.

Ho il terzo occhio, due tipiche cavigliere e al braccio una fila di bangles (braccialetti votivi) di vetro colorati che un commerciante mi ha regalato in cambio di un sorriso.

Un sorriso!

Quello che l’India ha marcato a fuoco nel mio cuore.

C’ho messo mesi prima di riuscire a rielaborarlo.
L’ho dovuto sedimentare, digerire e fare mio, prima di riuscire a regalarvelo con la stessa dolcezza.

Spero di esservi riuscita e con questo ad agurarvi buon Natale.
Buon Natale da me e dalla mia India.

sylvie

 

 

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