Io si.
Sinceramente mi ha sempre inquietato.
Con quell’aria da finto tonto sorridente a denti larghi non me l’ha mai raccontata giusta.
E poi che bisogno c’era, in tutto quel salire e scendere, di passare attraverso un buco nero?
Ora le antenne penzolanti a palla e la mela che violava ogni giro di giostra non ci sono più, ma l’aria poco rassicurante è rimasta la stessa.
Così mentre mi fissa prima di partire colmo di bambini urlanti, penso.
Non è l’altezza in sé a far paura.
Né la velocità.
Nella vita ciò che spaventa è il punto di partenza.
Quanto in alto ci si è spinti dentro di sé prima di trovarsi su quel declino?
Non importa che si stia su un interregionale o sulla più temibile delle attrazioni.
Qualunque sia la “montagna russa” che stiamo vivendo, se la misura è colma anche il più stupido dislivello può mandare nel panico.
O al contrario, non tangere affatto.
Ecco, io rientro senza ombra di dubbio nella prima categoria, ma lo comprendo solo guardando mio figlio.
Lui che ha visto più volte la morte in faccia fin da quando è nato.
Nessun vuoto d’aria, pendenza o velocità l’ha mai spaventato.
Il rumore dei passi dell’infermiere nel corridoio si.
Perché è quando sei fuori dal contesto che smetti di temerlo, insieme a tutto il resto.
Così come ricominci damblé, quando sei di nuovo dentro.
Oggi affronterò di nuovo una tappa molto importante della mia vita.
Una di quelle per cui mi sono sempre spinta oltre, ancor più sù della cima.
E per questo ho paura.
Sono arrivata così in alto, che a guardarlo da lì anche il minimo pendio diventa infinito.
Non è solo il dolore che temo.
Ma il fallimento.
L’ennesimo.
La paura di dover iniziare di nuovo a risalire la china.
Asciugare lacrime e sudore e ricominciare ad accettare la situazione.
Senza poter far nulla.
Ma quel trenino verde con dentro quel piccolo putto biondo riccioluto oggi mi ha cambiato.
Mi ha rasserenato.
Voglio addormentarmi quindi con la sua immagine, mentre chiude gli occhi, allarga le braccia e si lascia andare libero al paventato pericolo. Mentre si gode l’ebbrezza dell’altezza, il vento in faccia e la velocità.
È conscio che non morirà.
E lo sono anch’io.
Perché se anche dovesse andare male, quel declino di sofferenza lo conosco, l’ho già affrontato, quel picco di disagio è già stato superato.
E allora in fin dei conti, che senso ha temere questo Brucomela di realtà?
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